Parliamo di un film che ha fatto la storia del cinema, un evento costruito sul passaggio culturale di un’epoca che stava rivoluzionando modi e codici espressivi ed etici della modernità. L’opera è interpretata da due famose stelle hollywoodiane sul viale del tramonto, Joan Crawford e Betty Davis, due caratteri antitetici e impulsivi che nella vita reale si distinsero per una aggressiva, prolungata rivalità reciproca.
Che Fine Ha Fatto Baby Jane (1962, Robert Aldrich) è un vero e proprio horror psicologico che da molti punti di vista nasce e si sviluppa in un “contesto limite”, in cui la profondità espressiva del dramma rappresentato si nutre dei meccanismi manipolatori, seduttivi e contro-seduttivi scatenatisi tra produzione, regia e attrici protagoniste nei febbrili “dietro le quinte” del set cinematografico.
La vicenda narrata si presta particolarmente a rappresentare con vivida chiarezza le drammatiche conseguenze relazionali e umane di ciò che si definisce un’Organizzazione Borderline della Personalità, ovvero uno schema di funzionamento patologico che in media si stima, oggi, riguardi il 3% della popolazione. Siamo nell’area dei disordini narcisistici, di quei disturbi del Sè che compromettono la possibilità di entrare in qualsiasi tipo di relazione stabile e duratura con un Altro psicologico, che viene percepito come pericoloso e affettivamente intrusivo, al punto da generare un alto livello di angoscia auto o etero-distruttiva e la necessità di difesa, fuga o tentativo di controllo dell’Oggetto ritenuto persecutorio.
Alle radici del disturbo Borderline di personalità sta un’incapacità dell’organismo mentale precoce a sviluppare quella membrana psicologica e simbolica che aiuta a differenziare il proprio Sé da quello degli altri individui che popolano l’ambiente, la figura materna responsabile dell’accudimento, in primis. Complesse fantasie onnipotenti popoleranno il bilancio psicologico dell’individuo cresciuto sotto una tale costellazione originaria, che può essere innescata e mantenuta da una coppia genitoriale che investe il neonato con la voracità univoca dei propri desideri e modelli di comportamento, disconoscendo in parallelo bisogni, emozioni e stati d’animo dell’infante.
E’ ciò che accade alle sorelle Blanche e Jane Hudson, protagoniste assolute del film, per cui i genitori sognano il palcoscenico di Hollywood come destino elettivo. Sin dal rapido antefatto, la narrazione si preoccupa di metaforizzare il tema mostrando il pianto disperato della bambina Jane di fronte a uno di quei pupazzi che saltano fuori dalle scatole, mentre il padre che aziona ripetutamente il meccanismo della molla si disinteressa totalmente della forte emozione della bambina e le ripete di non aver paura. La precaria condizione psicologica di Jane non le consente di distinguere il gioco dalla realtà, e nemmeno l’animato dall’inanimato, l’Oggetto che sta fuori da quello che il suo intimo rappresenta. E’ tutta qui l’angoscia.
La piccola Jane viene subito avviata alla carriera di star precoce e comincia a girare i teatri col proprio spettacolo di canto e ballo. Le rappresentazioni hanno un tale successo di pubblico che viene fabbricata a fini commerciali una bambola a grandezza naturale della bambina. Jane cresce nella bolla del mito paterno e sviluppa un carattere arrogante e capriccioso, dall’altro lato osserviamo il disprezzo che il padre riserva a Blanche, supportata a malapena dalla madre che profetizza per lei un destino nel cinema ancora più sfolgorante di quello della sorella.
Il cuore del film racconta invece molto bene la difficile, contrastatissima convivenza delle due sorelle ormai adulte, alla soglia della senescenza. Vediamo che Blanche, realizzatasi in passato secondo il volere/profezia materna, vive reclusa in casa su una sedia a rotelle, ancora presa nel proprio mitico alone da star, mentre Jane, mai realizzatasi nello show-business da adulta, la accudisce astiosamente mettendo in fila una serie di crudeli provocazioni che prostrano la sorella.
Il tema dell’incidente che ha compromesso la vita di Blanche e di cui Jane parrebbe responsabile, rimane come un’ombra sullo sfondo per l’intera durata della narrazione. I caratteri adulti delle due sorelle appaiono come la logica, puntualissima descrizione di come evolve una personalità afflitta da un profondo disturbo narcisistico.
Dalla materia viva e vivida di uno scontro tra organizzazioni Borderline, gelidamente, la narrazione affronta tutti gli snodi critici tipici della dinamica patologica: la violenta gelosia reciproca, l’incapacità di sopportare emozioni autentiche e il crollo dell’empatia; l’impulsività, le provocazioni e gli agiti comportamentali; il gioco sado-masochistico delle parti; l’eterno rimbalzo di colpa che attribuisce al comportamento dell’altro ogni motivo della propria sofferenza; la dipendenza da alcol che affligge Jane e che, dal punto di vista clinico, rappresenta l’estrema difesa del Borderline dall’angoscia e dai sentimenti di estrema indegnità che affiorano nel proprio intimo.
Nella seconda metà del film l’intreccio volge verso quella deriva psicotica, regressiva e delirante, che minaccia le forme gravi delle organizzazioni narcisistiche lasciate al proprio destino. Il finale del film consegna alle parole di Blanche lo svelamento dell’interrogativo portante che riguarda la relazione patologica tra le due sorelle; non andremo oltre nel commentare la storia perchè non vogliamo rivelare nulla del Twist che getterà nuova luce sulla drammatica vicenda.
Che Fine Ha Fatto Baby Jane rimane un capolavoro della storia del cinema che grida il dolore dell’Io alle soglie dell’Era Liquida, un’epoca di crisi della genitorialità e della responsabilità in senso lato, che vede il preoccupante aumento statistico di tutte le patologie dell’area narcisistica.