Vincitore del Leone d’oro veneziano nel 1964, Deserto Rosso appare come uno dei vertici della filmografia di Michelangelo Antonioni. La profondità e la congruenza espressiva con cui viene messa in scena la patologia dei codici della società borghese, tema particolarmente caro al regista ferrarese, viene qui ulteriormente declinata nella prospettiva intima e personale del personaggio femminile interpretato da una straordinaria Monica Vitti.
Giuliana è malata, soffre di un disturbo psicotico, l’esordio sintomatico di una schizofrenia probabilmente. A metterci in allarme sin dai primi minuti al riguardo è la sequenza in cui Giuliana, una bella donna borghese dagli occhi spaesati e inquieti, cede a un’improvvisa fame ansiosa e insiste per comprare un panino mezzo mangiato dall’operaio di una fabbrica; corre poi a divorare l’incongruente pasto dietro un cespuglio, lasciando improvvisamente solo il figlio che teneva per mano.
Il contesto ambientale in cui la storia si muove è profondamente coerente con la rappresentazione del dramma di Giuliana. Siamo nella Bassa Padana industriale fatta di fabbriche, ferraglie, fumi, ingranaggi, rumori stridenti e paesaggi naturalisticamente morti, vittime degli sversamenti incontrollati di veleni chimici. Case di Giuliana e del marito Ugo, ingegnere di successo dai toni convenzionali e poco empatici, è un susseguirsi di ambienti semivuoti, dai colori gelidi e modernisti come quelli di uno studio medico, dove qua e là affiorano singoli oggetti di antiquariato che colpiscono per la loro provvisorietà e incongruenza, come colpiscono certi racconti che gli psicotici fanno di sé: una serie di circostanze a-storiche che fanno fatica a legarsi in un continuum identitario, appaiono piuttosto singoli fatti che si alternano su uno sfondo affettivo gelido.
Giuliana è consapevole di essere malata, dominata da un’angoscia senza senso e senza forma in cui si sente sprofondare. Sogna di essere sdraiata su un letto che si muove, e che va giù, sempre più giù, mentre lei osserva le sabbie mobili che lo risucchiano. L’incontro con Corrado, un collega del marito insoddisfatto, in cerca di se stesso e del proprio destino esistenziale, è una resa dei conti che mette Giuliana di fronte a quello che è un grande pericolo per la personalità psicotica, incapace di tracciare una linea di separazione netta tra contenuti del mondo psichico interno ed alterità esterna.
Il movimento seduttivo di Corrado acuisce la sofferenza sintomatica di Giuliana, osserviamo il senso di de-realizzazione conseguente l’angoscia di base, il fiorire di una puntuale sequenza di allucinazioni, visive e uditive, di spunti che tendono a disintegrare la propria unità affettiva e cognitiva in una serie di impulsi parziali che confliggono e si contraddicono, assumendo connotati auto ed etero-distruttivi. Giuliana appare adeguata a tratti soltanto nella superficie convenzionale dei riti sociali borghesi, la magistrale scena della gita nel capanno di pesca ne traccia i limiti esistenziali, limiti fragili e provvisori che sfociano comunque in una bouffèe dispercettiva e delirante.
Altro vertice critico dell’esperienza di Giuliana è la relazione con il figlio, che appare preda di un’educazione meccanicista e anaffettiva organizzata dal padre Ugo. Anche qui la donna appare inadeguata a stabilire la giusta distanza di una relazione intima di tipo genitoriale, spaccata tra movimenti di annullamento e iper-investimento narcisistico. Punto di rottura del legame madre-figlio diviene la paralisi alle gambe che tiene a letto il piccolo per qualche giorno. Scoprire che il comportamento del bambino è una simulazione, più o meno cosciente, divisa tra movimento di identificazione con l’angoscia materna e attacco distruttivo al legame, è un’ulteriore esperienza che mina la fragile psicologia della donna. Giuliana si rende conto della realtà paradossale, è lei che ha un bisogno disperato dell’esistenza del figlio e non viceversa, come la natura imporrebbe.
Coerentemente all’indeterminatezza esistenziale dell’uomo, mentre osserviamo l’incapacità di Corrado di aiutare la condizione dolorosa di Giuliana, la relazione dei due si esaurisce superficialmente secondo i prevedibili desideri di conquista erotica che ha Corrado. La storia si interrompe bruscamente e Giuliana ne esce sprofondando un altro po’, con un discorso di commiato che indica un inizio di consapevolezza terminale della propria condizione, insieme al fallimento della speranza di poter ricevere un aiuto da chicchessia: “C’è qualcosa di terribile nella realtà e io non so che cosa sia. Nessuno me lo dice.”
Due ultime scene allusive vedono ancora Giuliana protagonista di una sorta di presa di coscienza della propria condizione psicologica compromessa. Prima, in una sorta di monologo ricostruttivo che sorge al fondo della propria disperazione, la donna si confessa a un marinaio incontrato per caso che non parla nemmeno la propria lingua: “Non devo pensarci, tutto quello che mi capita è la mia vita.” C’è consapevolezza, estrema, ma anche la constatazione che il mezzo comunicativo è morto, nulla può più raggiungerla nelle sconfinate distanze della propria solitudine. Nell’ultima sequenza, singolarmente simile alla prima, guardiamo Giuliana passeggiare vicino a una fabbrica tenendo per mano il figlio. Il rito circolare delle immagini rispecchia il tempo circolare del vissuto psicotico in cui nulla si evolve.
Le ultime battute che la donna e il figlio si scambiano servono solo a sottolineare il grande paradosso della follia vissuta. Tutto continua, come prima della crisi, ma la vita si tiene distante, come se fosse morta tra i veleni delle fabbriche-uomo. L’arte registica di Antonioni sfuma il dramma personale e lo rilancia in parallelo come crisi verticale dell’ambiente inquinato, della socialità convenzionale, delle relazioni borghesi.