Nel volume della Recherce intitolato I Guermantes, leggiamo Marcel Proust, per bocca del dottor du Boulbon, lanciarsi in un’appassionata difesa dei nevrotici e delle loro potenzialità espressive: «La splendida e penosa famiglia che è il sale della terra… tutte le cose più belle ci sono arrivate dai nevrotici… loro e soltanto loro hanno creato religioni e le grandi opere d’arte».
Mentre non si può che concordare con lo scrittore francese sul fatto che il disagio psicologico sia il motore elettivo di tanta produzione artistica, dal punto di vista della psicologia clinica occorre fare qualche distinzione. Nello specifico, lo stile coartato della personalità nevrotica non sempre si coniuga con lo sfogo creativo. La sofferenza del nevrotico riguarda fondamentalmente l’impossibilità di accedere alla propria “verità”; pur mantenendo un sufficiente senso di realtà nei suoi rapporti con l’alterità psicologica, a costui è inibita la via della conoscenza “affettiva” del mondo, ovvero l’esperienza traente dei propri desideri autentici.
Nelle relazioni interpersonali e nel contatto con il collettivo sociale, il nevrotico tende a disadattarsi o iper-adattarsi rispetto a norme e ruoli codificati rigidamente, poco o nulla mediati secondo le linee della propria individualità autentica. La necessità di difendersi dal mondo simbolico che ruota intorno al proprio conflitto è la principale fonte motivazionale del nevrotico, la cui gamma umana sembra ritualizzare difensivamente la vita più che accoglierla nella verità del proprio accadere imprevedibile.
Iperadattati e nevrotici siamo giocoforza un po’ tutti, costretti dalle regole del vivere in comune a cedere parte della nostra istintività vitale, eppure non tutti facciamo l’effetto grigio e disarmante di Francois: un “mattone”, come viene poco rispettosamente definito dal figlio e dalla moglie stessa. Francois è Daniel Auteil, “uomo medio” e impiegato contabile a tutto tondo, protagonista assoluto de: L’Apparenza Inganna, brillante commedia degli equivoci del 2001, diretta da Francis Veber.
Il destino di Francois scorre piatto e prevedibile, moderatamente sereno, nei ruoli codificati di marito, padre, quadro minore di un’azienda che lo ha identificato come esubero ed è sul punto di licenziarlo. Non è la scarsa considerazione e la disistima che riceve dagli altri, propri affetti in testa, a mandare in crisi il mondo di Francois, piuttosto la minaccia di perdere il ruolo sociale, quel rassicurante punto di contatto con la superficie del mondo che è il proprio ancoraggio difensivo.
Osserviamo dunque la commedia della vita che mette il personaggio di fronte all’estrema soluzione del suicidio. Mentre si tiene in bilico sul cornicione di casa, tuttavia, l’impossibilità di accedere alla pienezza del desiderio fa si che spunti il vicino di casa, vecchio sornione dell’esistenza, omosessuale, che lo salva e lo riporta a una forma di ragione. Belone diviene consigliere e mentore del bistrattato protagonista, al punto da convincere il riluttante e depresso Francois a fingersi omosessuale, in una strategia che sembra pazzesca ma punta invece, molto intelligentemente, a sovvertire i ruoli nell’eterna contesa tra individuo e norme collettive.
Invece di rimanere schiacciato dal chiacchericcio aziendale e familiare circa la propria nullità, senza far nulla, il protagonista del film si risveglia nel cono d’attenzione di una società falsamente educata e politicamente corretta, che si sente in dovere di difendere colui che rappresenta una “minoranza”. Francois non può più essere licenziato, quindi, anche perchè l’azienda di cui fa parte produce profilattici e non è davvero il caso di inimicarsi una bella fetta di clienti potenziali.
Così, in un crescendo di tenore comico, assistiamo a un balletto sociale dove ognuno cerca di riposizionare se stesso e le proprie opinioni intorno alla difficile incognita che è diventata la presenza del sempre defilato Francois. Come in un classico vaudeville, si svelano una dopo l’altra le umane ipocrisie del direttore del personale omofobo e machista Felix, un roboante e fastidioso Gerard Depardieu, del presidente Kopel, della collega arrivista, della moglie e del figlio. Il grigio contabile che faceva l’effetto di un mattone diviene improvvisamente il nuovo oggetto di seduzione collettiva.
Il conformismo sociale dominante, sempre all’opera, comincia a lavorare a favore della causa trasgressiva del novello Francois che non solo evita il licenziamento, ma comincia a scalare posizioni e opinioni fino a diventare protagonista del proprio destino. Lo nuova coscienza del protagonista può finalmente godere, lacanianamente, della percezione e della presenza di quel proprio “desiderio” inibito su cui prosperava la propria nevrosi.
In una riduzione narrativa molto sintetica, la vicenda metaforizza piuttosto bene la natura del processo analitico di una psicoterapia. Ciò che il vicino di casa Belone suggerisce al nevrotico ossessivo Francois non è di cambiare se stesso né le proprie attitudini o credenze. Il mentore-analista spinge il personaggio a considerare una nuova prospettiva utile, ad entrare consapevolmente nello spazio del gioco delle apparenze ed accogliere in sé l’elemento “trasgressivo”, il perturbante che apre alla possibilità di riconoscere e integrare la pienezza della propria personalità.
Sotto la veste di una divertente commedia degli equivoci, prendendosi qualche necessaria libertà espressiva, L’Apparenza Inganna centra molto vividamente il non facile bersaglio di rappresentare, tra il serio e il faceto, quel destino nevrotico medio che tocca a tutti, più o meno, in questo ordinamento sociale. Tornando all’iniziale citazione di Proust, possiamo dire che l’opera artistica partorita dal malessere di Francois è la propria vita stessa. La soluzione sembra comunque essere nel potere di una piena creatività soggettiva che va riconquistata, quando occorre, anche affidando il proprio disagio alla saggezza competente di una guida.