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La Trasformazione del Dolore: dentro il Grido di Munch

Non ci sono dubbi che il dolore sia l’esperienza cardine della condizione umana, quella intorno a cui organizziamo o meno la nostra risposta vitale e che segna fin da subito il verso della nostra costituzione psicologica. Basta pensare a che tipo di esperienza lacerante può essere per un neonato quella della fame, della mancata presenza di quell’oggetto totalizzante che è il seno materno e che costituisce il primo rapporto vincolante con il mondo, ben prima che si possa distinguere se stessi dalla presenza di un altro personificato.

Come un convitato di pietra, l’esperienza del dolore rimane in agguato per tutta l’esistenza in attesa di scompaginare il nostro disegno lineare, di farci reagire dandoci spesso una misconosciuta mano a disseppellire limiti e risorse impensabili per ciò che crediamo di noi stessi e delle nostre capacità umane. In questa luce il dolore viene a costituirsi come il gesto supremo della funzione creativa, sta a noi saperlo riconoscere, accogliere e trasformare, nella consapevolezza che la nostra parabola esistenziale è limitata da vincoli biologici e temporali, che un grande vuoto è di nuovo l’ultima soglia che ci attende per tirare le somme, qualsiasi cosa si ritenga che tali somme rappresentino.

La storia della nostra cultura è disseminata di esempi che testimoniano quanto si va dicendo, molto spesso sono stati gli artisti a indicarci il percorso creativo e la funzione della “pensabilità” del dolore. La via della rappresentazione simbolica è la funzione più “alta” ed efficace del “pensiero”, laddove per pensiero ci si riferisce all’intero spettro della matrice espressiva della psiche, dove convergono dinamiche e significati coscienti e subcoscienti, dove l’etica trova compimento nell’estetica.

Eppure, da questo punto di vista, la nostra epoca sta decisamente regredendo. Si riduce il raggio di pensabilità del dolore e della morte, il tempo interiore utile a elaborare e trasformare l’incontro con l’impensabile è diventato troppo lungo e oneroso, non trova più contenitori simbolici dove collocarsi e non è più ritualizzabile socialmente, se non in una forma di spettacolarizzazione mediale, superficiale e scissa da sé.

“Una sera passeggiavo per un sentiero, da una parte stava la città e sotto di me il fiordo. Ero stanco e malato. Mi fermai e guardai al di là del fiordo, il sole stava tramontando, le nuvole erano tinte di rosso sangue. Sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo. Dipinsi questo quadro, dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando.”

In poche frasi estratte dai propri diari, l’artista Edward Munch ci consegna l’esperienza viva e drammatica che sta alla fonte del celebre Grido, un dipinto che è diventato letteralmente un’icona della modernità. La sensibilità e il puntiglio con cui Munch annotava le sue esperienze di vita e pittura aiuta a decodificare cosa l’artista percepì quel giorno e come lo realizzò in un processo di auto-svelamento che durò almeno tre anni.

Apprendiamo così che la sintesi espressiva di ciò che per Munch di un “trauma” fu un processo lungo e tormentato, che avvenne in un periodo storico-culturale, quello del tardo Ottocento, in cui le arti figurative si attardavano nei codici simbolisti, devoti a una rappresentazione ancora idealizzata del fattore umano, che tendeva ad escludere i motivi critici dell’interiorità psicologica.

Ciò che Munch realizza va molto al di là di una semplice testimonianza dell’angoscia e del dolore universale, la tensione creativa che si accumula nel tempo trascorso tra l’esperienza intima dirompente e la sua simbolizzazione pittorica arriva a rompere i canoni del consueto, comincia a fondare la Modernità abbandonandosi alla radicalità dell’emozione. Rovesciando il gesto percettivo, ci viene mostrata una catastrofe interiore e il conseguente disfacimento degli ancoraggi dell’Io in un panorama di pura angoscia che non mostra confini tra dentro e fuori, proprio e altrui. “Soltanto un pazzo avrebbe potuto dipingerlo”; Queste le parole dello stesso Munch che, secondo molti critici d’arte, fece da apripista per la corrente pittorica espressionista.

A monte del Grido e di tutta la parabola espressiva del pittore norvegese sta una vita costellata da malattia e dolore, dalla scomparsa precoce della madre, della sorella e, in ultimo, del padre, episodio che pare far precipitare il nucleo solidificato della propria sofferenza per farlo esplodere durante quella passeggiata sul fiordo, in una sera del 1890 in cui il pittore udì un Grido attraversare la natura. Sappiamo che nei tre anni successivi Munch si dedicò maniacalmente a dipingere una serie di studi che chiamò “Disperazione” e che terminarono solo con la raffigurazione che venne chiamata il Grido, titolo peraltro suggeritogli da un amico.

Tutto concorre a descrivere come probabilmente nemmeno Munch stesso fosse ben consapevole di cosa esattamente il proprio slancio creativo andasse cercando. Rimane chiara in questo caso la testimonianza di come, a fronte di un trauma, il lavoro inconscio spinga per rendere “pensabile”, ovvero raffigurabile, quell’immagine onirica che va cercando forma e che, a valle di un lunghissimo itinerario umano, ancor prima che artistico, ci appare come un fantasma senza sesso che grida.

Alla radice dell’esperienza di Munch sta quell’elemento inconcepibile, spaventoso, che lega lo psichico umano al dominio non-psichico della natura. E’ questo elemento non-vivo con cui entriamo in relazione a forza in ogni lutto che Bion chiama: elemento Beta. Alla funzione Alfa, ovvero al pensiero conscio e subconscio, è deputato il lavoro costante di trasformazione psichica che rende possibile alla vita psicologica della razza umana di non scadere nella follia.

In estrema sintesi, tutto ciò che per l’Uomo è angoscia, dolore, paura della disgregazione viene, nel migliore dei casi, sottoposto a meccanismi di “introiezione” dell’oggetto critico esperienziale, ovvero a un processo trasformativo che viene definito “onirico” in senso esteso. Si pensi a processi che non appartengono solo al dominio dei sogni notturni ma piuttosto a funzioni sempre attive tra i registri stratificati del pensiero. La lunga parabola figurativa delle “Disperazioni” necessarie alla raffigurazione del “Grido” illustra molto bene il punto.

Fuori dai tempi e dai modi della funzione creativa nessun oggetto dell’esperienza può essere assimilato nel lavoro del lutto. Ciò che per Bion è elemento Beta, ovvero l’Impensabile, il trauma che schiaccia con la propria forza ogni possibilità di rappresentazione simbolica, viene incorporato e incapsulato comunque nella psiche come una discontinuità, una frattura che mina l’espansione delle proprie facoltà vitali, nel migliore dei casi, o crea le condizioni perchè l’irragionevole muti in follia.

E’ il destino comune di tutti gli organismi umani cui è inibita la via della “mentalizzazione creativa”, ovvero la possibilità di una trasformazione simbolica della sofferenza, che siano individui, aggregazioni sociali o culture collettive, senza distinzioni di ordine o dominio. Così il Grido di Munch attraversa l’intera anima del Novecento e traccia una mappa utile a interpretare le nuove incognite e angosce che albeggiano nel terzo millennio.

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