“Un giorno Jacob Freud stava passaggiando per Freiberg. Era ben vestito e portava un berretto di pelliccia nuovo. Si trovò davanti un uomo. La situazione era imbarazzante: il marciapiedi, a quei tempi, era spesso uno stretto camminamento, tanto per evitare la superficie fangosa della strada. Jakob accennò ad un nuovo passo, ma con timidezza perché non ne faceva una questione di principio. L’invasore più veloce e, animato evidentemente da una certezza di superiorità, gli buttò il berretto nel fango, gridando: “Giù dal marciapiede, ebreo!”. Raccontando l’episodio al figlio, a questo punto si fermò. Ma il piccolo Sigmund lo incalzava perché, per lui, proprio qui veniva la parte più interessante del racconto. “E tu cosa hai fatto?” Con calma, il padre, rispose: “Sono sceso dal marciapiede ed ho raccolto il berretto”.
La mancanza di eroismo del padre che era stato per lui il modello assoluto, scese come un martello pesante sulla mente di Sigmund e ne decise il futuro. Ma un giorno Freud leggerà l’Eneide e capirà: suo padre si era trovato davanti alla stesso bivio di Enea che fuggiva da Troia. Fronteggiando il nemico si deve decidere: è meglio combattere per l’onore, rischiando la morte, o pensare al futuro, alla continuità della famiglia o di un popolo?
Ma cosa si aspetta un figlio dal padre? Secondo la tradizione patriarcale, che questo episodio può riassumere, è qualcosa di diverso da quello che si attende dalla madre. In condizioni normali, ogni figlio ama la madre. E se la madre è vittima di una ingiustizia? Il figlio continuerà ad amarla, sforzandosi anche di compatirla. Ed il figlio, normalmente, ama il padre? Certo, ma se il padre riceve una ingiustizia che cosa accade? Qui le cose si complicano perché il rapporto padre-figlio è molto più condizionato dall’ambiente.
La coppia madre-figlio, soprattutto alle origini, ha una sua qualità così esclusiva da porsi quasi fuori dal mondo. Al contrario, l’immagine della coppia padre-figlio, si inserisce fin dall’inizio in un gruppo in cui si è almeno in tre. Fa già parte della società: anzi, ci si aspetta che proprio il padre insegni al figlio a essere nella società, così come la madre ha insegnato ad essere nel proprio corpo.
Un simile figlio vuole che il padre sia forte e vincente. Se sarà vincente nel segno del bene, della giustizia e dell’amore, meglio. Ma spesso la cosa importante è che il padre dia l’esempio del vincere ed il bene è in secondo ordine.L’elemento materno è istintuale prima che culturale; e si tratta di un elemento molto profondo, se pensiamo che comincia a svilupparsi con i mammiferi, che compaiono sulla Terra circa 250 milioni di anni fa. (Questa generalizzazione non vale, però, se osserviamo i volatili, dove è molto frequente un nucleo familiare monogamo che per molti aspetti anticipa il nostro).
Nel corso dell’evoluzione i mammiferi specializzano il rapporto madre/figlio e non quello paterno. Qui possiamo iniziare ad introdurre l’ambivalenza fondamentale dell’identità maschile, che contrappone il padre al maschio fecondatore: la natura ha predisposto nel maschio solo la capacità di fecondare la femmina, non quella di accudire e proteggere la prole; i mammiferi generalmente conoscono il maschio genitore, ma non il padre. La parola stessa è carica di implicazioni culturali: “padre” deriva da una radice indoeuropea /pa/ che indica ‘nutrizione’, quindi quel prendersi cura in modo continuativo che nei mammiferi è proprio solo delle madri.
In tutte le possibili ricostruzioni della storia dell’evoluzione zoologica (per le quali, però, ci mancano ancora molti anelli), anche quando con le scimmie o i grandi primati ci avviciniamo all’uomo, non troviamo – se non in rare eccezioni – forme di organizzazione del gruppo che facciano perno su un nucleo familiare monogamico. Come la maggior parte dei mammiferi, anche i gorilla o gli scimpanzè non conoscono ancora la funzione paterna e la famiglia nucleare monogamica: la fecondazione, e dunque il ruolo sociale del maschio, avviene solo per competizione e non attraverso un rapporto stabile. Se andiamo allo zoo possiamo vedere che il gorilla maschio è enorme, quasi il doppio della femmina; questo accade perché solo il più forte accede alla possibilità di generare discendenza e i caratteri genetici maschili che vengono trasmessi sono selezionati in questo senso. Un solo esemplare prevale sugli altri maschi e di solito il più forte feconda tutte le femmine. Del resto, cosa succede oggi da noi? Scomparendo il padre, torna il culto di Schwarzenegger. Per chi come me crede nell’inconscio collettivo, non ci sono dubbi che il ritorno di questa fascinazione abbia un significato preciso. Ma su questo tornerò più avanti.
Dunque, anche nei mammiferi più sviluppati e più prossimi alla specie umana troviamo un maschio genitore che vive in un gruppo con diverse femmine senza avere un rapporto diretto con la sua prole. Poi, però, si verifica un salto. Se studiamo le società umane più semplici, sia quelle antiche scomparse sia i cosiddetti fossili antropologici (gruppi di umani con organizzazioni tribali ancora primitive), ci imbattiamo subito nella comparsa del ruolo paterno, vale a dire del maschio che riconosce la propria discendenza e la protegge. E ciò vale anche se accettiamo l’ipotesi, più volte dibattuta, che le società più primitive possano essere state originariamente matrilineari o matriarcali: anche in esse infatti è presente una figura maschile stabile (spesso lo zio materno) e dunque la funzione psicologica del padre, vale a dire del maschio responsabile attento alla crescita dei discendenti.
Questa è l’invenzione del padre: non un semplice genitore biologico, ma una figura impegnata nella protezione e nella crescita dei piccoli. Quindi la paternità non è un semplice atto istintuale, ma un complicato gesto culturale attraverso cui il maschio si prende cura dei figli. Per questa ragione, come sostengo nel mio libro Il gesto di Ettore, sono convinto che la paternità sia fondamentalmente un’adozione: le sono necessarie intenzione e consapevolezza. Il diritto romano lo codifica in un rituale: il padre deve innalzare il figlio verso l’alto e così lo adotta. Secondo molte ricostruzioni, l’invenzione della famiglia come nucleo monogamico stabile risalirebbe al Paleolitico, quindi, più o meno, a 2 milioni di anni fa. Rispetto all’evoluzione dei mammiferi, la storia di questa invenzione, che è quella del padre, ha tutto sommato pochi anni.
Certo, forse anche meno di 2 milioni di anni, se si studiano gli ultimi ritrovamenti fossili. Una delle spie per capire la trasformazione del rapporto fra i sessi è il dimorfismo, vale a dire la differenza di grandezza fra corpo maschile e femminile. Fino a 2 milioni di anni fa la differenza è molto simile a quella dei grandi primati: il maschio è quasi il doppio della femmina. Dai 2 milioni di anni in poi le proporzioni si modificano fino ad arrivare alle attuali, dove la differenza è intorno al 15% di massa corporea in più nel maschio rispetto alla femmina. E quest’ultima evoluzione risale a 100-200 mila anni fa. In questo lasso di tempo si è costruita la funzione paterna.
Una delle caratteristiche fondamentali di quest’invenzione è lo spostamento dell’aggressività dalla competizione fra maschi per il possesso delle femmine alla conquista dello spazio esterno e del tempo, favorito dalla specializzazione monogamica. Questo spostamento può essere considerato il limite che segna, nella nostra specie, il passaggio da zoologia ad antropologia?
Credo che questo sia il passaggio fondamentale. Il maschile non paterno è animale, ed è per questo che ritorna prepotentemente sulla scena tutte le volte che l’educazione culturale si sfalda. L’identità maschile paterna è squisitamente culturale e va insegnata, ritualizzata, trasmessa; altrimenti si perde facilmente. Lo sostiene, e con molte ragioni, Margaret Mead. Non è come l’istinto che non ha bisogno di pedagogia perché è una forza innata, essendo stata selezionata in milioni di anni. Il paterno è un addomesticamento del maschile animale attraverso un’educazione che è tutta culturale”.
– Estratto da: “L’eclissi dei padri”. Intervista a Luigi Zoja