La faccia attonita del bambino che non è più, lo sguardo tra lo sgranato e il disarmato dell’adolescenza che si presenta, non invitata, al portone della propria casa interiore. Un grande punto interrogativo in divenire, è questo il profilo di Joe, bravo ragazzo quattordicenne nel Montana rurale dei primi anni ’60, figlio unico di genitori problematici di una classe sociale al limite dell’indigenza. In questo ambivalente teatro esistenziale, con semplicità e fermezza, ci ingaggia Wildlife (USA 2018 – Paul Dano – non ancora uscito nelle sale italiane).
Entriamo così in una storia lucida e lineare, come nella migliore tradizione del racconto americano, dove i gesti dei personaggi sono abilmente calibrati sul limite del dramma senza mai deflagrare smodatamente e, proprio per questo, riuscendo a trasmettere tutta l’inquietudine che la vita predispone naturalmente.
Il punto di vista del giovane Joe comincia ad inquadrare la deriva di insoddisfazione che ognuno dei propri genitori cova e rivela nei successivi stadi della narrazione: il padre alle prese con i problemi di un lavoro che non si trova, o che forse lui stesso non vuole trovare; la madre che scopre la propria fragile identità quando il marito accetta un lavoro pericoloso e malpagato in un luogo distante che lo porterà via da casa per lunghe settimane.
La crisi della coppia procede di pari passo con il racconto puntuale del modello immaturo di genitorialità che i due riservano alla figura di Joe, che si ritrova strattonato tra le prospettive critiche e inconciliabili di padre e madre, ognuno teso a strumentalizzarne il ruolo a favore della propria causa esistenziale, piuttosto che ad “accudire” e indirizzare il processo di crescita del figlio.
Da molti punti di vista, benchè calato nella realtà rurale americana dei primi anni sessanta, Wildlife mette in scena il territorio patologico di molte separazioni coniugali dei nostri tempi e ne punteggia l’andamento attraverso il filtro della grande sensibilità del giovane Joe, costretto a navigare sulla linea d’ombra dell’adolescenza senza precisi modelli di riferimento da cui svincolarsi per cominciare a costruire la propria autentica individualità.
E’ proprio questo processo naturale di uscita dall’età infantile che, tipicamente, provoca una crisi nella coppia genitoriale immatura che, di pari passo con la crescita del figlio, avrebbe bisogno di adeguare la propria identità e i propri desideri al di là dello schema dell’accudimento infantile, verso un modello di gestione dei rapporti generazionali che integri la dimensione adulta del nuovo potenziale “conflitto”.
Non potendo esercitare la necessaria pulsione “trasgressiva” che la propria età richiederebbe, mentre cerca di salvare il nucleo affettivo della propria famiglia, Joe stesso viene coinvolto e costretto nel ruolo di genitore unico virtuale della coppia. Assistiamo a un precipitare di eventi che sfocia nella logica separazione di padre e madre che avviene un po’ dietro le quinte della narrazione principale, a rimarcare come l’obiettivo più profondo della storia sia la misura in cui il dramma si formula, come ondeggia e procede tra frenate e slanci, malgrado tutto, verso una conclusione. nella prospettiva sempre emozionale e vagamente sperduta di Joe.
Così l’ultima scena si configura con una grana iconica, densamente metaforica. Il film mette in scena il miglior “happy-ending” possibile per una dinamica familiare che è solitamente fonte di disagio, dolore e patologia. Joe, arrivato alle soglie della maggiore età, conquista precocemente un’individualità adulta e sembra mostrare ai due genitori ormai separati cosa significhi davvero prendere coscienza di se stessi e del proprio giusto ruolo nel sistema familiare.
Tirando le somme, si può dire come il raro pregio di Wildlife, più che la soluzione un po’ statica dell’intreccio, sia la costruzione puntuale e molto sensibile di quella prospettiva appassionata, sognante e in un certo senso invincibile che ogni adolescenza extra-patologica reca con sé.