Lungo dieci anni della propria densa e tormentata vita, Herman Hesse fu seguito da Jung in una novantina di ore di colloqui analitici. Al tempo, Hesse era già uno scrittore affermato e un “caso letterario” per via di Demian (1919), quel romanzo di formazione personale tracciato tra canone romantico e afflato misterico che provocò scalpore e meraviglia negli ambienti culturali dell’epoca. La prima edizione del libro, non a caso, recava come autore lo pseudonimo di Emil Sinclair.
Hesse era afflitto da vari sintomi nevrotici: insonnia, emicrania, affezioni psicosomatiche, stagnazioni depressive e crisi creative che lo accompagnarono per gran parte della propria vita. Per ciò che sappiamo dalle puntuali ricerche storiche compiute dal prof. Sonu Shamdasani, uno dei massimi esperti del pensiero di Carl Gustav Jung, molto della reciproca fascinazione che legò la straordinaria coppia analitica ruota attorno all’immagine di Abraxas, figura centrale della narrazione di Demian e fulcro di ognuno dei misteri psico-alchemici di cui sono seminati i romanzi di Hesse. L’ambivalente dio/demone della tradizione gnostica fu considerato oggetto eretico dai Padri della chiesa cattolica e scivolò nel dimenticatoio delle tradizioni culturali di derivazione giudaico-cristiana.
Al di là dell’enorme stima e affetto che lo scrittore nutriva per Jung, scrive Hesse nei propri diari come non riuscì mai a liberarsi dalla vaga sensazione che ci fosse un mistero irrisolto nell’uomo che sedeva di fronte a lui e che lo incalzava con intelligenza e passione, qualcosa di cui molto velatamente diffidava ma su cui non sviluppò mai una posizione precisa. Con il segreto timore che il metodo ermeneutico dell’analisi potesse svilire la propria “verità” letteraria, notò Hesse con quanta insistenza Jung gli riproponesse di parlare della simbologia e dei significati del dio Abraxas, dando quasi l’impressione di “rivaleggiare” con lui nell’affermazione/definizione del concetto.
L’aspetto oscuro della divinità, ovvero l’interrogazione esistenziale sulla quota di male che è insita nell’onnipotenza del bene, segnò l’intero destino di Jung, come ben racconta lui stesso nell’autobiografia: Sogni, Ricordi, Riflessioni; un testo fondamentale per capire la straordinaria parabola che ha compiuto il pensiero junghiano attraverso il ‘900.
Facile immaginare i due catturati dentro una grande dialettica passionale ai limiti del nevrotico, o forse pienamente dentro la condizione specifica. In alcune note successive al termine della propria analisi, Hesse scrive ancora qualcosa sul fatto che, al di là del bene ricavato dalla profondità dell’esperienza condivisa, scioglieva il proprio interrogativo di base a favore dei mezzi espressivi dell’arte, rispetto a quelli introspettivi ed ermeneutici della psicanalisi.
Con una nota di critica al metodo del proprio analista, come spesso accade nella realtà dei fatti della psicoterapia, Hesse terminò l’Analisi e si svincolò dal Transfert anche grazie al potere del principio del dio/demone, capace di cogliere le ambivalenze essenziali, gli aspetti opachi, unilaterali e potenzialmente nefasti dell’esperienza umana. Per ogni analizzato che “risorge” come Individuo il proprio psicoterapeuta ha l’aspetto di un “idolo” che è venuto giù dal piedistallo.
Nasciamo tutti sotto la costellazione del dio/demone Abraxas, nei paesaggi sfocati dell’inizio della vita psichica, quando la frustrazione del bisogno nutritivo assume proporzioni gigantesche e la rabbia si scarica sul bene del seno materno percepito come elemento che offende il paradiso dell’onnipotenza. In un certo senso, l’”odio” precede l’”amore”, che è la complementare riparazione della componente distruttività dell’istinto.
E’ un osso su cui si ripercuote l’aggressività di una scimmia quello che vola in cielo e si trasforma in un’astronave del futuro, per dirla ancora, metaforicamente, alla 2001 kubrikiana.
-
Ascoltando una conferenza del prof. Sonu Shamdasani