“Quello che speravo di più non si avvererà. Certe ferite non si rimarginano.” E’ questo il cuore del messaggio che Travis affida a una registrazione sonora, cuore esistenziale del personaggio ed enzima narrativo che precipita il senso di tutta la vicenda di Paris Texas, opera del regista Wim Wenders, datato 1984. Nell’impossibilità emotiva di sostenere un colloquio a quattr’occhi, Travis consegna la propria dolorosa verità al figlio perchè possa cominciare a snodare il destino psicologico dominante della linea generazionale paterna.
Paris Texas è un’opera d’arte che si interroga a tutto tondo sul tema delle Origini, parliamo di origini personali, familiari e generazionali, per quel che riguarda il protagonista del film. Travis popola il racconto dalla prima sequenza con la sua camminata silenziosa ad attraversare i deserti in cerca del terreno acquistato anni prima, luogo dove i propri genitori si conobbero, dove il loro amore partorì Travis stesso. Ma parliamo anche di origini culturali e collettive, di sogno americano e del suo opposto insensato, come sarà più chiaro al termine del percorso narrativo. Il film ha trentacinque anni e ha attraversato l’architrave di un nuovo millennio che oggi definiamo “liquido” assumendo risonanze future. E’ prerogativa dei capolavori, del resto, acquisire profondità prospettica col passare del tempo.
Un qualche genere di “trauma” esistenziale fa da sottotesto all’intero racconto, almeno fino allo scioglimento finale dei destini. Sono quattro anni che Travis non dà più notizie di sé quando viene ritrovato e segnalato al fratello, che lo va a riprendere in uno sperduto deserto del Texas. Travis ha l’aria di un homeless malmesso, resiste nel suo mutismo e resiste scappando ai primi tentativi del fratello Walt di riportarlo a casa o anche solo di ottenere una spiegazione di quali eventi drammatici l’abbiano ridotto in quella condizione limite, tra l’autismo e la psicosi.
Di fatto non sapremo nulla di quei quattro anni di assenza, prima Travis si era lasciato alle spalle una compagna, Jane, e un figlio, Hunter, che i due avevano abbandonato e che ora ha otto anni, vive in affidamento alla famiglia dello zio Walt. Nel percorso di ritorno verso casa del fratello, che cerca di stimolarlo in ogni modo, Travis comincia a dare segnali di “risveglio” dal mutismo catatonico che lo possiede. L’incontro col piccolo Hunter che ha solo vaghi ricordi di lui avviene in una cornice poco drammatica, cauta ma non conflittuale, carica di una curiosità vitale capace di rianimare un po’ la nuova personalità post-traumatica di Travis.
Ciò che a quel punto entra in crisi è piuttosto il menage familiare di Walt e della moglie, che hanno investito molto nell’affetto per il piccolo Hunter. Walt è un medio borghese con un lavoro di imprenditore della cartellonistica pubblicitaria che assume connotati metaforici, la narrazione tuttavia sceglie di non approfondire la crisi ambientale e di concentrarsi sulla ricerca esistenziale del protagonista. Confortato dalla nuova relazione che si stabilisce con il bambino, Travis prende con se Hunter e parte in macchina per un nuovo pellegrinaggio alla ricerca della vecchia compagna Jane, con l’obiettivo di ricostruire la relazione tra il bambino e la madre reale.
Mentre quest’ultima “iniziazione” del destino di Travis procede verso una forma di compimento riparativo, la memoria che torna a brani risale al motivo fondante del proprio mito genitoriale. Parigi nel Texas si rivela come luogo del desiderio dove ogni cosa ha avuto inizio, ma anche il calembour con cui suo padre amava descrivere la località di nascita della propria donna e quella di concepimento di Travis. Si mostra così tutta l’ambivalenza dell’affetto paterno, legato alla propria compagna da una forma di amore narcisistico che, negandone la natura umana semplice e poco raffinata, l’aveva sempre dipinta e desiderata come una sorta di chimera “chic”.
In un periodo precedente al buio psicotico, mentre il proprio amore per Jane era giovane e puro, Travis ricorda di aver acquistato quel terreno spoglio a Paris, in Texas, per costruire una nuova casa da abitare con la propria famiglia. Di fatto, Travis non si avvicinerà mai a realizzare concretamente quel desiderio, l’eredità/identità paterna è destinata a franare tra i fantasmi irriferibili del proprio intimo, propagando un modello di affettività bipolare che mina la possibilità di mantenere una relazione realistica e stabile con la propria amata Jane.
Il film volge al termine attraverso le straordinarie sequenze dell’incontro-confessione tra Travis e Jane, che avviene in un poetico, lento, impossibile svelamento delle reciproche identità, ricostruite a valle di un disastro esistenziale e psicologico. Solo la distanza del vetro oscurato di un Peep Show che si frappone tra loro permette a Travis di completare ciò che del proprio destino è possibile. Assistiamo emozionati al racconto intimo e realistico dell’inferno in cui la loro relazione era precipitata dopo la nascita di Hunter. Gelosia, alcolismo, costrizione e violenza sono l’esito sintomatico di un amore reciproco che non riesce a superare la mitologia estatica delle origini. L’incontro con la realtà tangibile del difficile sostentamento economico e il prospettarsi della responsabilità genitoriale fanno deflagrare il fragile equilibrio narcisistico dei due e li spingono alla fuga, al tentativo estremo di annullare se stessi, di espiare la propria colpa nell’anonimato del mondo.
“Certe ferite non si rimarginano” Così dice Travis alla carne della propria carne, nonostante tutto il percorso compiuto, prima di prepararsi a scomparire di nuovo nel cuneo della propria incolmabile solitudine. Ciò che è psicologicamente impensabile, tanto da portar via la parola e la memoria, il trauma delle origini e la frattura dell’identità, sono ferite mai completamente sanabili, nemmeno attraverso la lunga opera di ricerca ricostruttiva operata da Travis nel racconto. Non può esserci un lieto fine ma solo un finale di passaggio, pensato, cercato e realizzato, e poi una nuova partenza, lontano dalla vita ricongiunta tra Jane e il figlio.
Così la vicenda di Travis somiglia alla variazione moderna del mito eroico di Ulisse, un eterno migrante ma, a differenza dell’eroe omerico. privo di un’identità precisa, di una terra madre simbolica cui ricongiungersi. E anche il figlio Hunter, appare come quel Telemaco del terzo millennio che, nella lettura di Massimo Recalcati, rappresenta le nuove gioventù che nascono in un’era dai riferimenti incerti, nella crisi generalizzata dei modelli genitoriali e della responsabilitàtà. Se l’Eroe non ce la fa più ad uccidere il Drago, forse, dal ritorno doloroso dei Padri non c’è da attendersi regni, risorse, ma solo la testimonianza liberatoria del fallimento, e tutta la lunga difficile migrazione compiuta tra l’impensabile e il rappresentabile.